"UNIVERSALISMO E TRIBALISMO" di Susan Neiman
Un estratto dal numero 6/2023 di MicroMega, “Universalismo vs identità: i nuovi conflitti a sinistra”.
Foto di Dominic Bonfiglio, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
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UNIVERSALISMO E TRIBALISMO
di Susan Neiman
Contrariamente a quanto fanno credere i seguaci delle dottrine woke che bollano l’Illuminismo come un’espressione del colonialismo occidentale o dell’eurocentrismo, i pensatori illuministi sono stati i primi a condannare il colonialismo e a esercitare una feroce critica dell’eurocentrismo. E lo hanno fatto in ragione di una visione universalista non fideistica né ispirata dal divino, ma basata sull’indagine conoscitiva su noi stessi, alla ricerca di ciò che ci accomuna come esseri umani.
Cominciamo dall’idea di universalismo, che un tempo definiva la sinistra; solidarietà internazionale era la sua parola d’ordine. Era proprio questo ciò che la distingueva dalla destra, che non riconosceva legami profondi, e pochi obblighi reali, verso chiunque fosse al di fuori della sua cerchia. La sinistra pretendeva che tale cerchia fosse estesa al mondo intero. Essere di sinistra significava questo: preoccuparsi dei minatori in sciopero nel Galles, o dei volontari repubblicani in Spagna, o di chi combatteva per la libertà in Sudafrica, indipendentemente dal fatto che si provenisse dal loro gruppo tribale. Ciò che univa non era il sangue ma le convinzioni, prima fra tutte la convinzione che dietro alle differenze di tempo e spazio che ci separano, gli esseri umani siano profondamente connessi in modi innumerevoli. Dire che le diverse storie e geografie ci influenzano è banale. Dire che ci determinano è falso. È indubbio che storie ed esperienze condivise creino legami particolari. Abbiamo tutti la tendenza a darci di chi non fatichiamo decifrare, le cui battute cogliamo al volo, le cui allusioni riconosciamo immediatamente. Ci vuole un atto di astrazione per diventare universalisti. Imparare le lingue e immergersi in altre culture renderà concreta questa astrazione, ma non tutti sono dotati come il grande artista e attivista poliglotta Paul Robeson. Eppure, anche senza il suo talento, esistono diversi modi per condividere, se non persino penetrare nelle culture di altri popoli. Non avrete mai lo stesso rapporto con una cultura di coloro che si addormentano cullati dalle sue ninne nanne. Ma la buona letteratura, il buon cinema e la buona arte possono fare miracoli.
L’opposto dell’universalismo è spesso denominato “identitarismo”, ma la parola è fuorviante, perché induce a pensare che le nostre identità possano essere ridotte a non più di due dimensioni. In realtà, tutti noi ne possediamo di innumerevoli, la cui rilevanza varia nello spazio e nel tempo nel corso delle nostre vite.
A seconda della persona, queste componenti dell’identità sono importanti almeno tanto quanto le altre due che la politica dell’identità ci induce a prendere in considerazione: etnia e identità di genere. Ma un attimo di riflessione mostra come anche queste ultime siano meno stabili di quanto si pensi. La vita di una persona nera è profondamente diversa in America da quanto lo sia in Nigeria, come Chimamanda Ngozi Adichie ha mostrato in maniera così brillante nel romanzo Americanah. Ed essere nigeriani è una descrizione identificativa solo al di fuori di quel Paese; in una terra nella quale i cittadini sono divisi da storie complesse e da più di cinquecento lingue, dire che si è nigeriani non significa nulla. Esiste un’identità indiana che vale allo stesso modo per indù e musulmani, bramini e paria? Possiamo identificare qualcuno come gay senza alludere al fatto che viva a Teheran o a Toledo? Lo storico Benjamin Zaccaria commenta a proposito: «Un tempo, essenzializzare le persone era considerato offensivo, in un certo senso stupido, antiliberale, antiprogressista, ma ora ciò è vero solo se a farlo è qualcun altro. Essenzializzare e stereotipare se stessi non è solo consentito, ma viene considerato qualcosa che ci rafforza».
Chi condannava l’essenzializzazione fino a due decenni fa, ora si accontenta di ridurre a due soltanto tutti gli elementi della nostra identità. Sforzi recenti per aumentare la diversità fanno spesso appello all’importanza che chi ricopre posizioni di autorità “mi somigli”. Si tratta di un’espressione straordinariamente puerile. Ma, in effetti, cosa vedono i bambini in realtà? Persone la cui discendenza è (almeno in parte) africana possono avere la pelle e i capelli delle più varie tonalità e consistenze; e il tono della pelle o la consistenza dei capelli non sono neppure le uniche qualità visive che percepiamo. Una bambina a cui si parla di qualcuno che le assomiglia potrebbe benissimo domandare: è più alta o bassa? Grassa o magra? Giovane o vecchia? E che dire del genere?
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