“PAROLE IN GUERRA”, MICROMEGA 2/2023 IN TUTTE LE LIBRERIE FISICHE E ONLINE - AMAZON - IBS
Caro lettore, cara lettrice,
ti proponiamo un piccolo estratto da “Parole in guerra”, il nuovo numero di MicroMega. È tratto dal reportage “I deportati di Mariupol’“ di Olesja Jaremčuk.
Foto Mariupol’: Flickr | manhhai
Prologo
Fuori nevica, le dita di mani e piedi si intorpidiscono, il gelo scalfisce la pelle.
Nell’autobus la gente è avvolta in giacche e cappotti. Sempre se ce li hanno. Di quei novanta residenti di Mariupol’ e dintorni stipati negli scomodi sedili più di trenta sono bambini. È severamente vietato lasciare l’autobus. Si può solo scendere per fare i propri bisogni in una buca. Nonna Oksana, mentre arranca tra i cumuli di neve, si torce una caviglia e non riesce più a camminare, la tengono per le braccia.
Come combattere il freddo penetrato nelle ossa? Saltando sul posto? Soffiandosi nelle mani? Strofinandosi il corpo?
Tre settimane in un rifugio umido sotto le bombe, praticamente senza cibo né acqua, seguite da una notte sui materassi in una scuola ancora in costruzione, da cui le persone venivano portate via con la minaccia delle armi; poi un interrogatorio e un controllo minuzioso in un campo di filtraggio e, infine, una notte ancora più fredda su un autobus.
Alcune madri si recano dalla guardia di frontiera russa per dire che è dura per i loro figli, che fa troppo freddo.
La guardia le interrompe: «Tornate sull’autobus. Se fate una scenata, sarà ancora peggio».
L’inizio
Il 24 febbraio Tanja aveva programmato di andare al mare con il fratello e la madre. La studentessa venticinquenne traduceva testi dall’inglese ed era convinta che le voci su un attacco russo facessero parte della guerra dell’informazione. Non aveva fatto scorte di cibo e acqua né preso sul serio i discorsi sul trovarsi un rifugio. Quando quella mattina la madre entrò nella sua stanza e le disse che era scoppiata la guerra, Tanja, ancora mezza addormentata, non riuscì a riprendersi dallo shock.
Missili e bombe russi stavano colpendo la loro città natale, Mariupol’. Nel loro appartamento sovietico a due piani nella periferia della città non c’erano rifugi, così andarono a casa della nonna pensando che lì sarebbe stato più sicuro. Al suono delle sirene si rintanavano in corridoio, e dormivano insieme in quella che era la stanza più protetta della casa per scampare alle schegge provenienti dalle finestre.
Qualche giorno dopo, un’amica della madre le informò che c’era posto nel rifugio della Casa della Cultura e che potevano recarsi lì. Andarono.
Le quattro stanze e i due corridoi ospitavano sessanta persone. Ma con l’intensificarsi dei bombardamenti divennero sempre di più coloro che cercavano rifugio lì.
Inizialmente era Valerij, lo zio di Tanja che viveva nelle vicinanze, a portar loro da mangiare. Presto però i cittadini di Mariupol’ vennero privati di acqua, elettricità e poi anche del gas. Non si riusciva più a cucinare. Un giorno una mina colpì la casa degli zii, così anche Valerij e la nonna si spostarono nel rifugio.
Se ti muovi, sparano
Il 13 marzo l’esercito russo annunciò che gli uomini non potevano più uscire dal rifugio. D’ora in poi sarebbero state le donne ad andare a prendere l’acqua. Sotto i bombardamenti, bisognava raggiungere il pozzo e trascinare i boccioni da diversi litri fino al rifugio. Alle donne mancava la forza fisica, quindi potevano portare solo due o tre boccioni alla volta.
Quando zio Valerij uscì per chiedere di permettere anche agli uomini di andare a prendere l’acqua con le donne, gli coprirono il volto con un berretto, gli sequestrarono il telefono e gli dissero: «Fai un passo e ti spariamo».
Lo zio rimase immobile per mezz’ora mentre i russi gli controllavano il telefono. Poi gli dissero di andare a prendere la moglie e tutti i documenti, compresi quelli di Tanja. Dopo aver esaminato tutto, lo lasciarono andare. Il telefono, però, non l’ebbe mai indietro.
Gli occupanti avevano bloccato i corridoi umanitari cosicché, con il tempo, anche coloro che avevano fatto scorte di cibo e acqua rimasero a secco. Le donne uscivano dal rifugio per cercare qualche avanzo nelle loro case e spesso ci trovavano soldati russi che sbevazzavano e sparavano in aria.
La vita al lume di un accendino
Il 15 marzo i russi decisero che tutte le donne e i bambini dovevano lasciare il rifugio. Tra la gente dilagò il panico: girava voce che li avrebbero portati a Donec’k.
Alcune donne chiesero ai soldati di poter restare, ma partire era un ordine. Una donna anziana morì nel rifugio: probabilmente il suo cuore cedette.
«Sapevamo di non poter disobbedire», ricorda Tanja…