Giornalismo di guerra, i rischi e le sfide
Un estratto da "Parole in guerra", il numero 2.2023 di MicroMega
“PAROLE IN GUERRA”, MICROMEGA 2/2023 IN TUTTE LE LIBRERIE FISICHE E ONLINE - AMAZON - IBS
Una delle peculiarità della guerra in Ucraina è la proliferazione dei mezzi di comunicazione a disposizione delle diverse parti in causa per creare il proprio racconto della guerra. Alla classica propaganda, si è aggiunto il cosiddetto engagement che si crea attraverso i social media.Ogni giorno milioni di persone seguono minuto per minuto le vicende belliche attraverso i profili di politici, giornalisti locali, inviati internazionali, esperti o appassionati di tattica militare.
Come si inserisce, in tutto questo affastellarsi di racconti, parole e immagini, il racconto della guerra fatto attraverso il mestiere del giornalista sul campo? E quali sono i rischi e le sfide per un mestiere che può mettere a repentaglio la vita stessa, come abbiamo visto anche di recente con la tragica morte di Bogdan Bitik, collaboratore dell’inviato di Repubblica Corrado Zunino rimasto ferito a sua volta?
In “Parole in guerra” ne abbiamo parlato in una tavola rotonda assieme a tre inviati di guerra: Francesca Mannocchi, Sabato Angieri e Lorenzo Cremonesi.
In esclusiva per gli iscritti alla newsletter, un piccolo estratto a proposito del ruolo dell’inviato di guerra in un contesto mediatico come quello italiano e della sua preparazione sul campo.
[…]MicroMega: Sabato Angeri parlava della crescente pressione che viene esercitata sul giornalista a fare tutto, comprese cose per le quali non si hanno magari neanche le competenze o che comunque non si vorrebbero fare; cose che poi, come raccontava Lorenzo Cremonesi, possono persino cambiare il quadro di come una redazione decide di coprire la vicenda che voi da inviati state seguendo.
Vorrei chiedervi in che termini, a vostro avviso, le differenti condizioni contrattuali e di status con cui si svolge questo mestiere – se freelance come nel caso di Francesca o Sabato, o se inviati di una testata come per Lorenzo – cambiano il lavoro. Quali eventuali maggiori difficoltà o quali eventuali opportunità si possono riscontrare lavorando in una veste o nell’altra? Penso per esempio al fatto che laddove moltissime testate anche importanti il 24 febbraio si sono ritrovate impreparate allo scoppio di una guerra che molti non si aspettavano e hanno mandato i loro inviati precipitosamente, di contro un giornalista freelance come Sabato ha avuto modo, seguendo la sua sola intuizione, di arrivare già diverse settimane prima, convinto che stesse per accadere qualcosa di importante, e dunque trovarsi preparato al momento dell’invasione. Infine, vista la prossimità con tanti colleghi di altri Paesi nello stesso campo di corrispondenza, mi piacerebbe sapere se avete riscontrato differenze importanti fra come i giornalisti italiani si trovano a lavorare e le condizioni di giornalisti di altre realtà.
Francesca Mannocchi: Anche sul piano dell’impreparazione e dell’improvvisazione, si potrebbe dire che non abbiamo visto nulla che non fosse già avvenuto in occasione di altri conflitti. Tuttavia qui la differenza è che, rispetto ad altre guerre, la televisione italiana si è trovata a dover riempire i palinsesti parlando di guerra 24 ore su 24. E allora hanno fatto quelli che io chiamo “i piatti svuota-frigo”: chiunque avesse uno smartphone e un reggitelefono, diventava automaticamente un inviato di guerra. Sono pedante su questo, lo so. Però se questo tipo di copertura si verifica su una televisione privata mi indigna e basta.
Se però avviene sulle televisioni pagate dai soldi delle mie tasse, mi sento danneggiata come cittadina e mi infurio, perché questa guerra ha sancito in maniera plastica che la televisione pubblica nel nostro Paese non aveva pronta una batteria di inviati da spedire ai quattro angoli del mondo. Non c’erano o ce n’erano troppo pochi. E parliamo di un’azienda pubblica che ha a disposizione centinaia di giornalisti: semplicemente non li aveva preparati. Quindi c’è una responsabilità del giornalista, ma c’è una responsabilità previa dell’editore: se un cialtrone parla in diretta televisiva, ha colpa il cialtrone, ma ha più colpa chi lo manda in onda. Che dovrebbe avere la capacità di scegliere e sapere che sulla guerra non si può improvvisare. Specialmente su una guerra che è così pericolosa, così prossima a noi e così pregna di dilemmi.
ACQUISTA “PAROLE IN GUERRA” IN TUTTE LE LIBRERIE FISICHE E ONLINE - AMAZON - IBS
Nelle prime settimane della guerra noi ci siamo trovati di fronte a colleghi, e non di primo pelo, che dicevano che su Kyïv cadevano 50 bombe, perché non sapevano distinguere il rumore di un colpo d’arma che entra dal rumore di un colpo d’arma che esce. Questo non è un dettaglio secondario se ti mandano a raccontare una guerra: se non li sai distinguere, non sai come ti devi comportare; non sai come ti vedi difendere, e quindi non sai come ti devi prendere cura di te e delle persone che lavorano con te e di cui tu devi avere somma responsabilità. E infine, non sai neanche come raccontare quello che accade.
Riguardo alle differenze con gli altri Paesi, il mercato del giornalismo in Italia è un mercato all’ingrosso: il problema non è se altrove ci sia o non ci sia il Bengodi economico, ma il fatto che alla radice, innanzitutto, c’è una diversa grammatica del dibattito pubblico. In altri Paesi, dalla Germania alla Spagna e non parliamo neanche della Francia, hanno una consuetudine al dibattito informato e consapevole sugli esteri. Apri Le Monde, apri Libération, apri un qualsiasi quotidiano spagnolo, che sia progressista o più liberale, e sarà una consuetudine trovare un racconto degli esteri e un conseguente dibattito, con posizioni diverse fra loro. Sarà normale leggere un reportage dal Congo o dal Burkina Faso. Qui tutto questo non ce l’abbiamo o ce l’abbiamo troppo poco. Il racconto del mondo non è parte dell’ordinario, sembra una cosa eccezionale. E di eccezionalità in eccezionalità non si è costruita una grammatica, salvo rarissimi casi che troviamo innanzitutto nei grandi quotidiani. Il quotidiano è ancora l’arte nobile in questo mestiere; ma se penso alla televisione, il quadro è desolante.
E a proposito della differenza fra scrittura e video, sono molto d’accordo con quello che diceva Sabato. Pur partendo e tornando sempre all’immagine nel mio lavoro, perché credo che le persone non possano restare indifferenti se vedono un volto e se vedono il nostro corpo lì da dove stiamo parlando, anch’io sono più contenta quando scrivo un buon pezzo, rispetto a quando faccio un buon racconto video. Perché la scrittura è un’arte nobile e ci dà più responsabilità rispetto alle cose che diciamo e facciamo. Purtroppo quest’arte nobile viene scarnificata da un mercato che è diventato un mercato ignobile. In Italia però, a differenza di altri Paesi, noi continuiamo a non dare regole: in altri Paesi i quotidiani non assegnano ai freelance le zone di guerra, perché non si prendono la responsabilità di mandarli al macello. Per fare cronaca di guerra devi avere un’attrezzatura che ti protegge. Devi poter pagare l’assicurazione per te, per il tuo fixer, l’autista, i colleghi che sono la tua sicurezza. In Italia è rimasta molto sottotraccia la notizia che un giornalista italiano ha avuto un incidente in cui è morto il suo autista. Di questo autista non sappiamo neanche il nome; né sappiamo con quali modalità sia stato convinto ad andare dove non avrebbe dovuto andare. Non mi sembra che cose analoghe siano accadute con altri colleghi di altri Paesi.
Lorenzo Cremonesi: C’è un livello di pericolo nel fare questo mestiere in zone di guerra che investe anche giornalisti di grande esperienza e bravura. Per esempio ha colpito un professionista vero come Daniele Mastrogiacomo, quando fu rapito in Afghanistan insieme al suo interprete all’autista. O penso ai nostri colleghi che arrivarono catapultati a Tripoli, due giornalisti del Corriere, oltre a Domenico Quirico e all’inviato dell’Avvenire: il loro autista li aveva portati in piazza Verde senza sapere che fosse contesa e che dietro c’erano i gheddafiani. C’è dunque un livello di pericolosità che ti può investire anche quando non solo sei un giornalista assunto ma anche molto esperto e di mestiere. D’altro canto, pensando ai giornali stranieri, chiediamoci se il New York Times avrebbe mai potuto inviare un giornalista come il reporter italiano che si è fatto colpire a Cherson di cui parlava Francesca. Impensabile.
E d’altro canto, c’è un altro risvolto che vorrei sottolineare. Rispetto a qualche decina d’anni fa, in Italia è in corso un fenomeno nuovo: è cresciuto un giornalismo di presenza, sui luoghi, che prima non c’era e che per me, nella mia visione del giornalismo, è un fenomeno molto positivo. Qui tuttavia interviene la questione del lavoro freelance. Lavorare a cottimo come nel caso del giornalista preso a Cherson in un contesto così pericoloso è grave. Si corrono tantissimi rischi e spesso alla fine di questi viaggi non si sono coperte neanche le spese. L’ho visto anche con tanti colleghi giovani a Mosul (durante la guerra contro l’Isis). Sono viaggi a perdere, perché i giornali pagano troppo poco. E i freelance rischiano la vita per briciole. In questi casi allora o sei molto ricco – e allora fare il giornalista diventa una questione di classe, un’avventura da borghese tanto poi mamma a casa ti dà i soldi – oppure non puoi farlo. C’è un problema di lavoro sottopagato. Ci sono persone come me che sono quasi aristocratici del giornalismo: godiamo di stipendio, di assicurazione. Fare l’inviato, fra una cosa e l’altra, può costare anche più di mille euro al giorno; e poi ti ritrovi giornali che pagano poche decine di euro a pezzo, mentre le foto neanche le pagano più. Quando ho cominciato a lavorare io, le foto di prima linea venivano pagate fra le 500 mila lire e il milione…
Questo meccanismo spinge i giornalisti a rischiare di più, per emergere, per farsi notare sperando di farsi un nome. E questa è una distorsione tipica del mercato italiano. Il criterio non è più giornalistico, ma di visibilità e di autopromozione. In altri Paesi le cose sono diverse. Ho conosciuto freelance francesi che venivano pagati 10 mila euro per ogni servizio che facevano. Cifre impensabili nel mercato freelance italiano. […]