Dialogo su giornalismo e democrazia
Un estratto da "La democrazia nemica di sé stessa", il numero 3/2023 di MicroMega
Acquista MicroMega 3/2023 in tutte le librerie fisiche e online, come Amazon e Ibs.
Condividiamo con i nostri lettori un passaggio tratto da Dialogo su giornalismo e democrazia, la tavola rotonda organizzata con le studentesse e gli studenti della Scuola di giornalismo Lelio Basso di Roma, pubblicata nel numero 3/2023 di MicroMega. L’estratto include uno scambio tra il fondatore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais e lo studente Nicola Dammacco.
Immaginare il ruolo del giornalismo nei sistemi democratici del prossimo futuro può mandare in crisi. Ma se le condizioni di lavoro e la fisionomia stessa dei giornalisti e del potere sono cambiate e cambieranno ancora nel tempo, la missione di questo mestiere si conferma sempre la stessa: continuare a raccontare la società e i suoi conflitti, sfidando i sistemi di potere. Un lungo e vivo dialogo sul ruolo presente, futuro e passato dei giornalisti nel sistema democratico fra il direttore e fondatore di MicroMega e studentesse e studenti della Scuola di giornalismo Lelio Basso di Roma.
[…] Flores d’Arcais: Il giornalismo è una di quelle professioni in cui vale l’ambiguità contenuta nel termine tedesco Beruf, usato da Max Weber in uno dei suoi saggi più importanti, La politica come professione (Politik als Beruf). La parola tedesca per professione è “Beruf” che ha la stessa radice della parola “Berufung”, che vuol dire vocazione. Il giornalismo è una di quelle professioni che implica o dovrebbe implicare una vocazione; oggi però la vocazione sembra quasi scomparsa, lasciando solo la professione, la necessità di portare a casa la pagnotta cercando di fare diligentemente quello che ti fa fare il redattore capo. Ecco, questo naturalmente non è giornalismo. Il giornalismo è una professione/vocazione che per essere tale ha bisogno di tutte le caratteristiche che abbiamo elencato.
Rispetto alle quali la vostra generazione si trova con un problema in più che le altre non avevano. Tradizionalmente infatti le minacce all’integrità, all’idea di verità, al dovere verso la verità provenivano sostanzialmente da destra. È il potere che vuole l’opacità, è il potere che ha paura della verità: non è un caso che Gramsci una volta scrisse che «la verità è rivoluzionaria», perché la verità fa paura ai poteri costituiti. Oggi ci troviamo in una situazione assolutamente inedita e paradossale, per cui c’è una contestazione del potere – che si immagina tale in buona fede – che in realtà ha paura della verità, e introduce a sua volta, e paradossalmente, forme di censura. Mi riferisco ai movimenti culturali, di cui ci sono cronache tutti i giorni e che coinvolgono soprattutto i campus universitari, dapprima negli Stati Uniti e in Inghilterra, ora anche in Francia e in Belgio. Ed è questione di tempo perché arrivino anche in Italia. Il Sessantotto negli Stati Uniti nasce un po’ prima del 1968, nei primi anni Sessanta con il movimento del free speech. Oggi i movimenti nei campus americani sono per la negazione del free speech e gli studenti si esercitano in manifestazioni che impediscono a chiunque non sia in linea con la loro idea di prendere la parola. Pensano di essere i nipoti e pronipoti del Sessantotto, mentre ne stanno totalmente rovesciando il senso. Stanno facendo esattamente quello che i rettori e i governatori negli Stati Uniti facevano contro gli studenti nel Sessantotto. Tutto il movimento woke, che è naturalmente un movimento composito, sta diventando un movimento non di incentivazione dello spirito critico, ma di ottundimento dello spirito critico, di ritorno allo spirito d’obbedienza. Non si fa altro che sottolineare quello che vi può essere di pericoloso in un testo. Ora, che nelle università che sono nate proprio per essere luoghi dove già nel Medioevo si poteva cominciare non dico a essere eretici, ma insomma a sperimentare qualcosa che era ai limiti dell’eresia, gli studenti rivendichino come una conquista il fatto che non si possano più utilizzare testi che contengono idee “pericolose”, cioè non in linea con i valori di oggi, è veramente un paradosso. Se per liberarsi di una serie di pregiudizi ci sono voluti secoli di lotte, è piuttosto ovvio che i testi di quelle epoche non potevano contenere quei valori che per vedere la luce hanno impiegato secoli di lotte e sacrifici. Siamo di fronte a un’abrogazione della dimensione storica, che fa tutt’uno con l’abrogazione dello spirito critico. Una tendenza che è nemica del giornalismo-giornalismo. Ecco, non so quanto ve ne rendiate conto, ma voi avete un nemico in più. Un nemico ancora più insidioso perché non sembra tale.
Nicola Dammacco: Grazie per questa ultima parte del discorso così interessante. Vorrei però fare un passo indietro e dire come intendo, personalmente, la professione del giornalista. Lei diceva che nel dopoguerra in Italia i giornalisti vivevano il loro mestiere con impegno civico. Personalmente, quello spirito critico e quell’impegno civico vorrei riportarli, nel mio piccolo e modestamente, nel giornalismo. Penso che in Italia e nel mondo occidentale, quindi Europa e Stati Uniti, c’è un grande problema: abbiamo smesso di interrogarci sulla realtà. Abbiamo smesso di chiederci se davvero questo in cui viviamo rappresenti il migliore dei mondi possibili. Ovviamente sto allargando il discorso, lo sto facendo un po’ iperbolico. Abbiamo pubblicamente accettato, anche in tono paternalistico, che questo è il migliore dei mondi possibili, che non c’è alternativa. Mi riferisco al paradigma economico, che domina indiscusso le nostre vite in Italia e in Europa. Ma è davvero così, davvero non c’è alternativa? Il giornalismo, secondo me, dovrebbe utilizzare una parola che adesso è un po’ desueta: utopia. L’utopia. Non come “non luogo” ma come stella polare da seguire, per camminare e andare avanti, e quindi trovare nuovi spazi e nuove prospettive possibili. Mi rifaccio a un concetto molto importante, che è la partecipazione. Abbiamo visto che nelle ultime regionali l’affluenza al voto è stata incredibilmente bassa. Stiamo parlando di meno di una persona su tre: il 37 percento nel Lazio. E questo è tremendamente preoccupante. Un tempo Giorgio Gaber cantava che la «libertà è partecipazione». Un altro termine molto importante per me, oltre a utopia e partecipazione, è “coraggio”. Ci sono professionisti seri, persone che hanno una competenza straordinaria, però sono davvero pochi i giornalisti coraggiosi al momento. Uno di questi è Julian Assange, che sta letteralmente marcendo in carcere. Qualcuno dirà che non è un giornalista. E allora, se Julian Assange non è un giornalista, io vorrei tanto essere un non-giornalista come Julian Assange. Oppure mi piacerebbe che si avesse il coraggio di ricordare che, se è vero che esistono aggressori e aggrediti, questa differenza esiste anche in Israele, dove il popolo palestinese è uno dei popoli più dimenticati della Terra. O penso alla guerra nello Yemen o alle guerre civili in Africa. Il giornalismo dovrebbe necessariamente, secondo me, riscoprire una dimensione anche di coraggio e di battere non soltanto quelle veline che vengono ancora oggi molto spesso divulgate, ma riscoprire una dimensione d’impegno anche morale, perché alcune storture sono evidenti e qualcosa che non torna c’è in molte narrazioni che vengono propinate dalle classi dirigenti, almeno nel nostro piccolo pezzo di mondo, l’Italia, che appartiene al mondo occidentale. Che, ricordiamolo, non è l’intero pianeta: il mondo occidentale rappresenta un terzo di tutto il mondo. Vorrei inoltre aggiungere che sono d’accordo con Flores d’Arcais per quanto riguarda i pericoli della cultura woke specialmente quando si arriva alla pretesa di cancellare o correggere le opere d’arte. Da questo punto di vista la cultura woke e relative nevrosi sono per me un’aberrazione assoluta. La letteratura deve sconvolgere e anche inquietare l’animo umano. Le etichette informative in stile “il fumo uccide” sarebbero un clamoroso errore.