Colonialismo: prospettive a confronto
Un estratto dal confronto fra Dipesh Chakrabarty e Nelson Maldonado-Torres tratto dal numero 6/2023 di MicroMega, “Universalismo vs identità: i nuovi conflitti a sinistra”.
Per studiosi e studiose provenienti dalle realtà un tempo o tuttora colonizzate in diversi luoghi del mondo, si è sempre posto il problema di come relazionarsi alla pesante eredità culturale occidentale. Se alla fine del Novecento a prevalere erano gli studi postcoloniali, ancorati alla visione teoretica della modernità, oggi molti studiosi e studenti-attivisti nelle università soprattutto statunitensi preferiscono parlare di approccio decoloniale, in ossequio al bisogno di “decostruire” lo sguardo occidentale. Due prospettive che, partendo da istanze comuni, giungono a conclusioni spesso diverse. Qui l’incipit del dialogo, pubblicato integralmente sul numero 6/2023 di MicroMega.
Dipesh Chakrabarty / Nelson Maldonado-Torres
in conversazione con Isabella D’Angelo
Secondo voi, cosa distingue innanzitutto le due prospettive, postcoloniale e decoloniale, quali sono i limiti e i meriti di ciascuna, e come si collocano i vostri lavori in riferimento a queste?
Dipesh Chakrabarty: Le parole cambiano. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, non distinguevamo fra “decoloniale” e “postcoloniale”; per esempio, venivano pubblicati libri dal titolo Decolonization Readers che includevano contributi che oggi invece chiameremmo postcoloniali. In questo senso, non penso che facessimo una gran distinzione fra i due campi. Ora però una distinzione è emersa e, per come la vedo io, l’uso odierno della parola “decoloniale” si distingue da quello di “postcoloniale” per mettere in primo piano una certa lettura della storia indigena, soprattutto per quanto riguarda il rapporto indigeno con il dominio e con le idee dell’Occidente. Mi sembra che questo nuovo uso della parola “decoloniale”, che è diventato piuttosto popolare, sia un fenomeno del ventunesimo secolo, nonostante talvolta ci sia anche, naturalmente, un riferimento a posizioni precedenti. Ma forse Nelson ha qualcosa da aggiungere o da sottrarre a questo proposito?
Nelson Maldonado-Torres: No, sono del tutto d’accordo col fatto che, in un certo senso, per molto tempo le due prospettive sono state indistinguibili, mentre oggi le chiamiamo con nomi diversi. Penso che parte del motivo stia nel fatto che, per quanto siano differenti, queste due prospettive condividono però un terreno comune composto di momenti storici e preferenze teoriche. Penso anche che la terminologia decoloniale, in particolare a partire dagli anni Novanta, abbia iniziato a differenziarsi da quella postcoloniale acquisendo una maggiore specificità per due motivi. A quel tempo, il campo postcoloniale era ben noto e aveva un grande impatto sugli studi umanistici in molti settori e credo che da parte decoloniale ci fosse l’impressione che la nozione di post non rendesse appieno giustizia alle realtà delle popolazioni indigene e di altre popolazioni che rimangono sotto regimi coloniali, benché “postcoloniale” non significhi letteralmente “dopo il coloniale”. Questo è un primo motivo per cui è emersa questa differenziazione, come ha detto il professor Chakrabarty. Un secondo motivo ha a che fare con un fenomeno post-1992: il 1992 fu il cinquecentesimo anniversario della cosiddetta “scoperta” delle Americhe e in quell’occasione molti movimenti indigeni nel mondo sollevarono il punto di cosa ci fosse da celebrare in questi cinquecento anni. Inoltre, quello fu anche un momento di grossa crisi del marxismo, per via della caduta del marxismo storico: il blocco sovietico stava cadendo e il Muro di Berlino era già caduto. Di conseguenza, c’erano un vuoto e un bisogno nel pensiero di sinistra, che allo stesso tempo intercettava le grandi questioni poste dai gruppi indigeni nel mondo che ponevano la questione dei cinquecento anni e della colonizza zione, in modo particolare, ma non esclusivamente, nelle Americhe. Cinquecento anni che furono anche cinquecento anni di modernità: questo portò all’idea che la modernità occidentale fosse intrecciata a una logica di colonizzazione che risale al 1492 o, meglio, al lungo sedicesimo secolo: non tanto un punto storico determinato, quanto un periodo che si estende anche oltre i cosiddetti momenti di indipendenza nelle Americhe nel diciannovesimo secolo, e nel ventesimo in altre parti del mondo. Credo sia per questo che il 1992 è stato il momento in cui molte persone hanno iniziato a parlare di “colonialità”: per esempio, il sociologo peruviano Anibal Quijano ha iniziato a scrivere di colonialità, coniando questa parola, e la scrittrice giamaicana Sylvia Wynter, che già stava scrivendo la maggior parte dei suoi lavori sulla decolonialità, in seguito avrebbe detto di possedere già, in un certo senso, questa nomenclatura; credo sia qui che emerge la nozione di “colonialità” come qualcosa che sussiste anche dopo i regimi coloniali e le colonizzazioni giuridico-politiche: si apre allora lo spazio per teorizzare il decoloniale come un’attività continua, differente dall’“anti-coloniale” nel senso tipico e tradizionale del termine. Quindi, penso decisamente che qui inizi la principale differenziazione, di cui si può rendere conto a partire da quel che è accaduto all’inizio degli anni Novanta, quando cominciano a svilupparsi questo tipo di piste divergenti. Le due piste sono ancora in relazione l’una con l’altra e molto difficili da separare, ma penso sia qui che possiamo rintracciare la loro prima differenziazione.
QUESTO È SOLO L‘INCIPIT DEL LUNGO DIALOGO PUBBLICATO SU MICROMEGA 6/2023. PER CONTINUARE A LEGGERLO ACQUISTA IL VOLUME NELLA TUA LIBRERIA DI FIDUCIA O NEGLI STORE ONLINE - AMAZON - IBS
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